Da Grandville a Blossfeldt
C’è qualcosa della Nuova Oggettività, quel movimento artistico tipico dei ruggenti anni ’20 della Repubblica di Weimar, che ancora oggi non smette di sorprendere. È probabile che tanto i presupposti quanto le conseguenze filosofiche del movimento non siano ancora state del tutto esplorate, nonostante il suo ruolo nella storia dell’arte sia stato ampliamente trattato.
Ma bando ai preamboli, visto che si tratta di un articolo che tratta di fotografia, andiamo a vedere qualche foto:
Direi che delle spiegazioni sono d’obbligo. Le prime due immagini sono tratte da Les fleurs animées, di J. J. Grandville [Parigi: Grabriel de Gonet, Éditeur, 1847], opera di fiorigrafia illustrata del caricaturista parigino in cui il gusto per la natura fiabesca, rappresentata attraverso fiori personificati da donne, e una certa cultura romantica ottocentesca, dichiaratamente nemica della Modernità industriale, si fondono armoniosamente in figure soavi e spesso smielate
Le altre due immagini sono fotografie di Karl Blossfeldt, Urformen der Kunst. Photographische Pflanzenbilder [Berlino: Ernst Wasmuth, 1928], una raccolta di macro dedicata allo sviluppo di piante e fiori esaminate attraverso l’uso dello zoom.
La domanda sembra ovvia: cosa è successo? Come si è arrivati, in meno di un secolo, dai fiori animati di Grandville alle fotografie di Blossfeldt? Come si è passati da una natura idillica, quasi arcadica, a fiori appuntiti e acuminati che ricordano strane fantasie preistoriche, forme inquietanti di gambi che assomigliano a bizzarri totem ghignanti appena vengono ingranditi quanto basta?
Come nota Benjamin, non senza certa ironia, „wir Betrachtenden aber wandeln unter diesen Riesenpflanzen wie Liliputaner“ [2]: “Ma sotto queste piante gigantesche noi osservatori ci trasformiamo in lillipuziani”!
Il passo dalle immagini bucoliche ed elegiache di Grandville al sadismo grafico(Benjamin, ibid.) di Blossfeldt deve essere letto senza mezzi termini.
Il colpevole del cambio va rintracciato nello sviluppo della tecnica fotografica, considerata, all’alba del XX secolo, la responsabile di un presunto tradimento estetico, e persino politico, di proporzioni catastrofiche. Non solo la fotografia, come ha mostrato cripticamente Benjamin nei suoi scritti dedicati al tema, introduce una nuova dimensione della percezione ottica, ma, soprattutto, sembra mostrarci un nuovo mondo. O sarà forse che l'occhio meccanico permette al suo fratello organico, senza dubbio più ingenuo e credulone, di accedere al solito mondo, ma scorto adesso non più sotto le mentite spoglie che da sempre ingannano la retina, ma come in realtà è sempre stato?
Tra le tante cose che si potrebbero dire su questo argomento scelgo apposta la più provocatoria: l'introduzione della fotografia solleva un problema di natura fondamentalmente teologica. Visto che sotto la lente di ingrandimento, si perdoni il gioco di parole, non si trova tanto la Natura di per sé, quanto piuttosto la relazione che questa mantiene con l’essere umano, non si tratta affatto solo di una questione di filosofia naturale, bensì di teodicea. Nelle raffigurazioni arcadiche di Grandville Umanità e Natura si trovano in reciproca armonia fino a che la stessa barriera tra le due si vede sfumata e sfocata nella figura della Donna, che assume così i tratti della Venus.
Cogliendo l’occasione offerta dalla passione per la lettura nel tempo libero della nuova borghesia parigina di formazione roussoniana, Grandville raffigura hölderlinamente un connubio psicotico in cui il ruolo dello straniero nel mondo è riservato alla tecnica, a quell’orribile ciminiera fumante verso la quale la donna floreale sventola speranzosamente un rametto verde. In un mondo e in una natura creati a misura dell’umanità, quest’ultima vive nell’universo naturale come in casa. È chiaro fino a che punto si tratti di una teodicea classica: la natura come prova del fatto che Dio ci ama.
L’introduzione della tecnica fotografica sconvolge radicalmente questa percezione del mondo. La fotografia rivela una natura aliena, ostile, mostruosa, e in ogni caso inabitabile per l’essere umano. Gli elementi floreali più dolci, testimoni a loro volta della dolcezza di Dio, si turbano e si scompaginano trasformandosi in testimoni osceni della inabitabilità della Terra e della distanza incolmabile tra Uomo, Natura e Dio. Aprendo per la prima volta l’occhio artificiale della fotocamera l’essere umano si trova gettato in un panorama primordiale dominato da forme oscure e divinità indecenti, che risvegliano l’antico sospetto gnostico per il quale il mondo non è stato creato per noi, bensì al massimo contro di noi. Ci troviamo di fronte a una specie di teodicea inversa o ponerologia fotografica: lo studio della Natura, in realtà, se osservato abbastanza da vicino, non è altro che lo studio di quanto di più mostruoso l’universo ha da offrire.
Agli amanti della fantascienza degli anni ’80, la Tellima Grandiflora fotografata da Blossfeldt non può non ricordare l’Uovo dell’Alien di Ridley Scott da cui schizza fuori il Facehugger.
Se nel caso di Grandville l’unione tra Umanità e Natura vedeva nella tecnica l’elemento scandalosamente alieno, nelle fotografie floreali di Blossfeldt, è lo spettatore a sentirsi apolide, straniero in terra straniera, odiato e deriso da un Dio beffardo, autore di una Creazione in cui, carrollianamente, nulla è ciò che sembra, e ciò che sembrava un tenero bocciolo nasconde in realtà una vita segreta e sinistra che mostra il suo vero volto alla pellicola fotografica solo per gettarci nel terrore.
Il procedimento fotografico radicalizza la posizione di quel (st)ridente giardino leopardiano, ritorno floreale del “gemito della creatura” paolino (Romani 8), e la sua testimonianza presenta il conto della Unheimlichkeit della Natura, sconfessandone la familiarità solo per passare a rivelarne l’estraneità. La fotografia rappresenta quindi un problema estetico solo nella misura in cui ne nasconde e ne riproduce uno teologico, vale a dire il riaffiorare di antichi terrori, passati tuttavia al vaglio della Modernità, vaglio che non solo declina sistematicamente l’orrore in chiave tecnica, ma soprattutto depriva allo sgomento di ogni speranza di redenzione.
“Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance […] Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice.” Giacomo Leopardi, Zibaldone di Pensieri. Bologna. 19. Aprile. 1826.