Intervista a Elettra Stimilli su Jacob Taubes
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Martino: Il mio proposito con queste domande è quello di attuare come un mediatore evanescente nei confronti del pubblico spagnolo, per permetterti di sviluppare le basi del tuo discorso. Taubes è un autore sul quale sembra che ancora si sia scritto poco e il suo ruolo della storia della teologia politica contemporanea forse non è stato ancora del tutto riconosciuto. Quindi la prima domanda sarebbe: come sei arrivata a Taubes? E subito dopo: che cosa ha significato Taubes per il suo percorso filosofico?
Elettra: Ho incontrato Taubes, diciamo così, un po’ per caso… O meglio, stavo lavorando sullo gnosticismo. In particolare, stavo scrivendo un lavoro sulla gnosi valentiniana e mi sono imbattuta in alcuni saggi di Taubes sul tema. Sono scritti assolutamente folgoranti, che mi hanno subito colpito. Trovo la sua interpretazione dello gnosticismo molto originale rispetto ad altre, che pure tendono ad attualizzare il pensiero gnostico, come quella di Voegelin, Blumenberg o altre.
Per Taubes, la gnosi non è soltanto un pensiero anti-mondano quanto piuttosto un pensiero contro-mondano; si può dire che la sua interpretazione tende a recuperare tutta quella carica rivoluzionaria, quella tensione di pensare un mondo differente rispetto a quello che è, che è un aspetto molto affascinante. Questa cosa mi ha subito molto interessato. Poi ho cominciato a leggere altre cose, finché ho scoperto “La teologia politica di Paolo”. Ho capito che c’erano ancora molti scritti non pubblicati. Sono quindi andata alla ricerca di materiali inediti, finché mi sono imbattuta nelle lettere tra Taubes e Scholem. A quel punto ho deciso di iniziare a lavorare seriamente su questo autore del tutto peculiare e ho cercato di ricostruire il suo percorso. L’incontro con Taubes è stato decisivo per me.
Sono sempre stata molto interessata alla religione come fenomeno sociale, come fenomeno storico. Taubes è stato molto importante, perché mi ha permesso di aprire uno spaccato particolare sul cristianesimo delle origini, su Paolo di Tarso. Ho scoperto, grazie a lui, che Paolo di Tarso non usa mai la parola cristiano, nonostante sia considerato il fondatore del cristianesimo, e quindi che in realtà si nasconda alle origini del cristianesimo un fenomeno del tutto peculiare, che non si può definire né già cristiano né ancora ebraico. E questo spaccato è stato per me veramente interessante da indagare. Ho riletto le lettere di Paolo, i testi del cristianesimo delle origini, incrociando questi scritti con gran parte di quel materiale cosiddetto apocrifo. Emerge qualcosa di realmente straordinario e fondamentale per un approccio filosofico.
M: La seconda domanda che ti farei si riferisce direttamente alla monografia, al tuo libro. La tua è la prima e l’unica, per quanto ne so, monografia esistente su Taubes. Direi che è insolito che la prima monografia su un autore proveniente dal mondo tedesco appaia per la prima volta in Italia e non in un paese germanofono. Saresti d’accordo nel dire che l’opera di Taubes è stata in generale trascurata dalla filosofia accademica? In caso affermativo che ragione addurresti per spiegare questo fatto?
E: Beh sì. Mi fa piacere che mi fai questa domanda, perché all’inizio io ho trovato molto faticoso lavorare su Taubes: non c’era praticamente nulla; a parte la Festschrift, curata da Bolz [Elettra si riferisce a Norbert Bolz (Hrsg.) y Wolfgang Hübener (Hrsg.), Spiegel und Gleichnis, Festschrift für Jacob Taubes (Würzburg: Könnighausen & Neumann, 1983). N. d. I.], che è stato allievo di Taubes, c’erano pochissimi articoli. Ma anche negli anni, ho potuto constatare che la sua ricezione è stata molto difficile, in particolare in Germania, e tuttora credo che lo sia. Forse solo oggi si può dire che la Germania cominci a fare conti con quel difficile personaggio che è stato Carl Schmitt, con cui Taubes ha avuto un rapporto diretto. Lui, rabbino, ha voluto andare a incontrare personalmente Carl Schmitt, il giurista teorico del nazionalsocialismo. Ha voluto incontralo, come dice lui stesso, da “nemico”, in quanto considerato nemico dallo stesso Carl Schmitt, o addirittura, in quanto considerato neppure nemico perché, da ebreo, appunto non aveva neanche il rango di nemico. Non poteva neppure essere riconosciuto come nemico. E tuttavia l’interesse di Taubes per Schmitt è molto intenso, è legato alla questione della teologia politica, alla questione della rielaborazione della Shoah a partire dalla teologia politica. E tutto questo percorso è stato molto difficile e per molti versi – comprensibilmente! – lo è ancora, in particolare in Germania. Come elaborare ciò che è accaduto con il nazismo? Il fatto che Taubes abbia avuto il coraggio, voglio dire anche provocatoriamente, di incontrare Carl Schmitt e di discutere con lui direttamente, non poteva essere compreso, in Germania non poteva persino essere accettato. Ma in fondo la sua riflessione ha avuto difficoltà a entrare anche negli Stati Uniti, dove Taubes è stato a lungo, insegnando in alcune delle più importanti università americane, come la Colombia University.
Forse c’è stata una difficoltà da parte dell’ebraismo di accettare che un intellettuale ebreo, un rabbino, si confrontasse con Carl Schmitt.
L’interesse di Taubes per Schmitt proviene anche da una sua interpretazione pionieristica di Benjamin, che per primo ha scritto a Schmitt negli anni ‘30, come del resto lo stesso Taubes ricorda più volte a Scholem nell’epistolario. Anche il rapporto con Scholem è stato un rapporto molto conflittuale, contraddittorio, difficile, provocatorio, di difficile comprensione all’interno del panorama accademico standard. Per quanto ho potuto capire, intervistando varie persone che l’hanno conosciuto – alcune entusiaste, altre assolutamente critiche – Taubes non era una persona facile. Provocatorio, aveva un carattere molto complicato, sempre con relazioni molto difficili. Tutto questo non ha sicuramente facilitato la ricezione del suo pensiero.
C’è un’altra questione: ha scritto soltanto un libro nella sua vita. La sua tesi di dottorato, Escatologia occidentale. Ha consegnato il suo pensiero a saggi brevi, a lunghe lettere teoriche, scritte ai maggiori intellettuali dell’epoca, o al discorso parlato. La stessa teologia politica di Paolo è la riscrittura di un seminario. Anche questo aspetto non rende facile la ricezione accademica del suo pensiero. Forse, questa particolarità è stata una delle maggiori attrazioni per me nei confronti di questo autore. La sua totale asistematicità, la sua frammentarietà. Quasi un Benjamin potenziato per certi aspetti.
M: Nell’intervista che hai fatto a Jean Bollack questi afferma addirittura che Taubes era uno gnostico, dice che possedeva «come di una familiarità con il non-essere, credeva che nulla esistesse veramente, ed è così che si rapportava a tutte le cose. Qualcosa di profondamente gnostico» [Jakob Taubes, Il Prezzo del Messianesimo (Macerata: Quodlibet, 2017), p. 153.]
E: Nel libretto su Schmitt Taubes dice: I have no spiritual investment in this world as it is. Non ho investimenti in questo mondo. È un’affermazione molto gnostica [E. si riferisce a Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fügung, (Berlin: Merve, 1987), p. 73. Ed. it. In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt (Macerata: Quodlibet 1996), p.79.].
M: Quando dice in tedesco: soll sie zugrundgehen, che affondi, riferito al mondo, che possa andare alla rovina.
E: Ecco, appunto, questo viene interpretato come un atteggiamento antimondano e basta. In realtà, tutta questa prospettiva non è anti-mondana, ma è contro-mondana. Non ho investimenti nel mondo così com’è, questo è il senso. Quindi, in qualche modo, vuol dire: voglio cambiare questo mondo. C’è un un’intenzione rivoluzionaria nel suo essere gnostico, non semplicemente nichilistica.
M: Molto interessante questa cosa. Su questo potremmo parlare ore. Ma passando alla terza domanda – sempre nella stessa linea di Taubes e teologia-politica-, vorrei domandare, qual è stato il ruolo di Taubes? e in che misura ha contribuito alle tue ultime ricerche in materia di teologia politica? Specialmente il passaggio dal tuo interesse per Taubes agli ultimi sviluppi riguardanti il nesso tra capitalismo e religione. Potremmo dire che anche lì è in gioco una componente escatologica che riporterebbe dunque a Taubes di nuovo al centro della discussione?
E: Sì, decisamente. Io dopo Taubes ho cominciato a lavorare sul tema del debito; del debito inteso, allo stesso tempo come un concetto economico e come concetto religioso, quindi legato al concetto di colpa, come indica la parola tedesca Schuld/Schulden, che sintetizza questa doppia significazione; questo doppio ambito semantico. Ho fatto questo passaggio proprio grazie a Taubes.Grazie allo studio sui testi del primo cristianesimo, ho capito quanto la prima esperienza cristiana sia totalmente innovativa, sia in un senso rivoluzionario – e questo è il lato che interessa a Taubes, la sua interpretazione del messianismo, come cambiamento radicale, come rivoluzione di questo mondo – ma anche in un senso politico. La prima comunità cristiana è una vera e propria comunità politica, che inventa una nuova forma di potere, quella economica, appunto. Questi due versanti, secondo me, sono entrambi presenti all’interno dei testi del primo cristianesimo. Attraverso Taubes, ho prima seguito il suo percorso: quello rivoluzionario, messianico. Poi, sono passata al versante teologico-economico, teologico-politico; quello in cui si capisce che si origina la fondazione di una nuova forma di potere. Quindi il mio lavoro su Taubes è stato fondamentale per questo passaggio. È stato anche fondamentale per una critica alla teologia politica, o meglio, per una interpretazione che non riconducesse tutto il discorso sul nesso tra religione e politica all’ambito teologico-politico, così come è stato definito da Schmitt. Nel nesso tra religione e politica c’è qualche cosa di eccedente rispetto alla teologia politica, che ha a che fare con l’economia, e quindi qualche cosa di differente rispetto alla questione della legittimità del potere, la legittimità dello Stato, la sua fondazione; tutto quel filone, che è caro Schmitt e che Schmitt assorbe totalmente nel suo discorso.
Per me lavorare sui primi testi cristiani attraverso Taubes è stato fondamentale per sviluppare un discorso autonomo rispetto alla sua interpretazione, ma che sicuramente trova qui le sue radici.
M: Detto questo, io volevo, sempre nella stessa costellazione, chiederti se in questa nuova teologia-politica declinata in chiave economica, se tu riscontri la presenza di una escatologia. Perché nel frammento il Capitalismo come religione Benjamin parla di un culto, c’è una dimensione teologica incluso cultuale. Però non è chiaro se presenta una dimensione escatologica -Il capitalismo come motore della storia-, se c’è una dimensione inerente alla filosofia e alla teologia della storia, in questa teologia-politica declinata in chiave economica.
E: Poco fa ho parlato di teologia economica perché è l’espressione che più si usa per definire questo ambito. In realtà, nel mio lavoro ho cercato di mettere in luce le differenze tra l’Ecclesia delle origini e l’elaborazione teologica successiva. L’invenzione dell’oikonomía, come pratica di vita che emerge dai primi testi dei primi cristiani, è quella che più ha a che fare con la nostra contemporaneità. La teologia economica, invece, è quella che ridefinisce in termini teologici l’istituzione originaria, segnando l’istituzione delle origini con un marchio storico-teologico e incasellando la stessa istituzione all’interno di un percorso che è quello della teologia della storia cristiana. Ecco, secondo me, questi due fenomeni sono differenti. Il primo è più vicino alla nostra contemporaneità, nella misura in cui la nostra contemporaneità non ha tanto a che fare con un disegno, un disegno provvidenziale nei termini della teologia della storia, poi secolarizzato dalla filosofia della storia moderna in senso hegeliano.
L’istituzione delle origini, così come la nostra contemporaneità, hanno in comune l’esperienza di un “tempo della fine”, come definisce Taubes il nun paolino. Taubes è interessato a sottolineare l’aspetto rivoluzionario di questa esperienza temporale, il suo lato messianico: la tensione che – pure – è propria di questa temporalità, la capacità di stare nell’ora della fine, di dare senso alla fine nel presente senza attendere un compimento futuro. Nella contemporaneità, questa dimensione temporale viene in qualche modo ripresa e totalmente svuotata in un eterno presente, in una continua e infinita pratica di indebitamento e colpevolizzazione come dice Benjamin nel frammento sul Capitalismo come religione.
M: Allora adesso passiamo alla quarta domanda, che era un po’ la domanda d’obbligo. La domanda sulla situazione che stiamo vivendo. Una delle grandi tematiche di Taubes è, e qui cito il titolo della famosa opera di Löwith, il problema dei presupposti teologici, e in particolare escatologico-apocalittici, della filosofia della storia. Credi che nella crisi che stiamo vivendo, al di là dei giustificati timori sanitari ed economici, si gestino dei tremori apocalittici che, infidi e impresentabili, si nasconderebbero in realtà nella paura verso il futuro?
E: Beh sì, nonostante tutti i tentativi da parte delle attuali tecniche di dominio economico di mantenerci in un eterno presente, un tempo sospeso, possiamo dire di vivere in un’epoca apocalittica. Basti pensare a quanto scalpore hanno fatto i movimenti Extinction Rebellion. La paura dell’estinzione della nostra specie. Fra l’altro sono questioni molto legate alla pandemia, perché sappiamo bene come la pandemia non sia un fenomeno naturale, o soltanto biologico, ma è profondamente legato ai problemi ambientali. Insomma, direi senz’altro che la condizione che stiamo vivendo sia legata a una paura per la fine di tutte le cose, per citare un’espressione che Kant scrive nel suo bellissimo saggio della vecchiaia, credo del 1794, in cui si chiede, come mai gli uomini hanno paura della fine di tutte le cose e in particolare perché collegano la fine alla paura. Perché la fine dovrebbe fare così paura? Questa è la domanda di Kant. [Elettra fa riferimento al famoso articolo di Kant del 1794, Das Ende aller Dinge. N. d. I.].
Ecco penso che i nostri tempi siano senz’altro tempi legati alla paura per la fine di tutte le cose. Ma credo anche che questa condizione che stiamo vivendo possa essere interpretata nel senso in cui Taubes utilizza la parola “apocalittica”. Come dicevo, legata non tanto a un tempo che ha paura della fine, quanto piuttosto a un tempo della fine. Un tempo, cioè, in cui l’esperienza della fine è ciò che permette di potenziare il presente e non di svuotarlo o di indebolirlo attraverso la paura per il futuro. Quest’altra opportunità ci è data, quella cioè di rivoltare la paura, di farne una possibilità per potenziare la nostra condizione, per riflettere su quanto stavamo facendo e su quanto possiamo ancora fare. Su quanto, in fondo, questa alternativa tra salute e economia di cui tanto si parla sia una alternativa inutile per potenziare il nostro tempo, perché sicuramente la due cose non si possono separare.
Nell’ultimo semestre ho insegnato in due corsi differenti, una di studenti molto giovani, appena entrati all’università e gli altri che invece stanno quasi per laurearsi; in entrambi casi ho percepito un grande desiderio di far fruttare questo tempo in positivo. Nonostante la difficoltà della didattica a distanza, la difficile condizione di interazione… io ho trovato una grandissima disponibilità, un grandissimo interesse, un enorme desiderio di farcela in maniera differente. Penso che i giovani, le nuove generazioni, che sono state molto trascurate in questi mesi, nelle difficoltà, nel chiuso delle proprie case, abbiano saputo elaborare questo periodo difficile, nonostante tutto. Qualche cosa di cui forse non sono neanche loro pienamente consapevoli al momento. Ma vorrei sperare che saranno proprio loro a tirarci fuori da questa paura per la fine che ci troviamo a vivere.
M: Quello di Kafka di ‘c’è speranza ma non per noi’.
E: Esatto.
M: Adesso passiamo all’ultima domanda. Che forse è la mia domanda preferita, perché forse è la che apre un po’ di più il dibattito non solo su Taubes come individuo, non solo sul personaggio ma anche sui tipi, le figure, quasi sulle macchiette della filosofia contemporanea. Quindi, Taubes, rabbino e teologo; Schmitt, un giurista, autodichiaratosi giurista, tra l’altro. Scholem, storico della mistica ebraica. Lo stesso Benjamin, profilo inclassificabile, del quale se potrebbe dire che si è filosofo al massimo lo è per ragione teologiche. Ci sarebbero però anche altri personaggi, come per esempio Assmann, che è un egittologo. Tutte queste sembrano figure outsider con rispetto alla filosofia, che ciononostante, rappresentano i grandi personaggi del dramma della filosofia de la teologia-politica del ventesimo secolo. Che lezione dobbiamo estrarre da questa costellazione? Non sarà forse una peculiarità della filosofia del ventesimo secolo il fatto di estrarre i suoi migliori contributi da figure liminali? Detto altrimenti non sarà forse che nella attualità non si può fare altro che parlare a partire dai margini? la vecchia intentio oblicua?
E: Sì, questa è una domanda molto bella. Ti ringrazio di averla fatta, perché per altro mi permette di dire anche una cosa che volevo dire nella prima risposta.
Allora si, sono molto d’accordo. Questo è uno dei motivi per cui ho finito per lavorare su Taubes. Penso che la filosofia, dopo la decostruzione della metafisica, da un lato, l’elaborazione della fine della metafisica heideggeriana, dall’altro, la grande tradizione francese del Novecento, Derrida, Deleuze e Foucault, credo che dopo tutto questo non si possa fare filosofia che da fuori, per utilizzare un’espressione di Roberto Esposito. Con questa espressione Esposito motiva, secondo me a ragione, come la filosofia italiana degli ultimi anni abbia destato un certo interesse in campo internazionale proprio per questa sua capacità di elaborare nuovi concetti filosofici a partire da punti di vista differenti rispetto a quelli classici. In qualche modo, secondo Esposito, la filosofia italiana ha saputo elaborare una riflessione filosofica che ha destato l’interesse del dibattito internazionale proprio per il suo punto da vista esterno dalla filosofia. E credo che non sia un caso che lo stesso Taubes sia stato recepito in Italia più che altrove. Perché, in definitiva, la filosofia italiana era più esercitata rispetto a questa prospettiva esterna alla filosofia, che è molto fertile per mettere in campo nuove chiavi di pensiero, nuove costellazioni. Per altro, in Italia, è stata anche elaborata con un certo anticipo una ricezione a sinistra di Carl Schmitt.
M: Molto interessante la ricezione italiana da sinistra di Carl Schmitt, emulando lo stesso Benjamin e forse proprio a partire da e attraverso Benjamin.
E: Stavo proprio per dirlo: questa ricezione a sinistra è stata facilitata dalla ricezione del Benjamin politico che, alla fine degli anni Settanta, in Germania, faceva ancora fatica a prendere piede. Ecco dunque, da un lato, la ricezione a sinistra di Carl Schmitt, dall’altro l’elaborazione del Benjamin politico, dall’altro, ancora, la capacità della filosofia italiana di non temere un approccio filosofico “da fuori” rispetto alla concettualità filosofica in senso stretto, anzi di potenziare questo aspetto, penso che tutto questo confluisca nell’interesse di Taubes da un punto di vista filosofico – che poi è il mio interesse per il suo pensiero. Perché fin dall’inizio ho letto Taubes dal punto di vista filosofico, non in senso storico, né dal punto di vista della filosofia della religione.